h 2:00
Tempo di Percorrenza
5,00 Km
Lunghezza Percorso
140 mt
Dislivello
Dopo una prefazione completamente dedicata alle donne liguri che hanno fatto la storia della nostra comunità, continuiamo ad immergerci nel mondo rosa attraverso i nostri itinerari della linea “To Be Pink”, compiendo un viaggio indietro nel tempo di migliaia di anni. Se nel mondo contemporaneo gli idoli si sprecano e li identifichiamo molto spesso in personaggi legati al cinema, alla musica, allo sport e, non per ultimo al web, dando loro un nome e un cognome, bisogna sapere che nel mondo antico un nome e cognome non lo avevano. Queste figure stilizzate, composte per lo più da ossa o pietra, riproducevano corpi femminili molto ben delineati, e venivano venerate come dee.
Lo scriveva in uno dei suoi ultimi studi il paleontologo Giancarlo Ligabue «L’ipotesi che il Dio Padre di tutte le religioni monoteiste fosse stato in origine una Dea Madre iniziò a delinearsi dopo la scoperta delle prime veneri paleolitiche, dove il corpo femminile era sentito come centro di forza divina. Proprio in quel momento, tra paleolitico medio e superiore, si pensa si siano verificati nello spirito e nella coscienza dell’uomo determinati mutamenti di struttura della psiche. Alla fase dell’inconsapevolezza si contrappone una sorta di pulsione che gli specialisti attribuiscono oggi ad un rapido evolvere della coscienza. Nasce un concetto di religiosità. L’uomo aveva scoperto di avere un’anima».
In Europa, queste figure dalle linee marcate, dai seni e dai glutei abbondanti, hanno datazione ricompresa attorno ai 40.000 anni fa, nel Paleolitico Superiore, ed i primi ritrovamenti certi indovinate un pochino dove avvennero?
Bravissimi, in Liguria, a poche centinaia di chilometri da casa nostra, presso le grotte dei Balzi Rossi di Ventimiglia.
Era il tempo in cui l’uomo si rese conto che la vita umana veniva generata dal corpo femminile, associandola poi ai prodigiosi cicli della natura, come le stagioni, fu portato a considerare femminili e non maschili tutti quei fenomeni del mondo che danno e mantengono la vita. Come già abbiamo appurato in veste di trekkinatori amanti del nostro territorio, il comprensorio del finalese è quello certamente più idoneo a svelarci i segreti del femminile sacro.
Tra le tante grotte che abbiamo visitato fino ad ora, una in particolare era proprio sfuggita al nostro già ampio repertorio; parliamo della Grotta delle Fate o delle Faje o ancora Arma du Zembu, nel cuore della località Le Manie di Finale.
Ci dirigiamo così sull’altipiano finalese e lasciamo la nostra auto nei pressi della Trattoria “Il Gambero Verde”, un tipico e caratteristico ristorantino ricavato in un contesto molto singolare, che vi verrà voglia di provare non appena lo vedrete; ravioli al tocco, gnocchi al pesto, coniglio alla ligure e altre leccornie della tradizione popolare ligure sono cucinate e servite nell’ex chiesa intitolata a San Giacomo di Zebedeo, rimasta in funzione fino alla metà dell’Ottocento ed oggi sconsacrata. Qui erano soliti ritrovarsi i carrettieri in transito sulle alte vie che utilizzavano i collegamenti della Val Ponci per raggiungere, a seconda del senso di marcia, il mare o l’entroterra. Nel tempo, l’edificio desacralizzato, subì vari cambi d’uso, trasformandolo da un ricovero per animali, carri ed attrezzi agricoli fino a ristoro e poi ancora a trattoria.
Dirigendoci verso sud est, superato l’abside, un piccolo sentiero che si inoltra nel bosco è l’inizio vero e proprio del nostro itinerario odierno. A distanza di pochi metri l’uno dall’altro due bivi ci vedranno scegliere la traccia sterrata che ci si propone sulla sinistra, lasciando sul lato opposto una bella casupola isolata.
La via non è segnata ma grazie al nostro nuovo Garmin Fenix 7x, possiamo seguirela traccia che ci siamo preoccupati di creare e caricare sull’orologio nei giorni precedenti all’escursione. Oltrepassata l’Arma delle Spine, toponimo utile per la geo localizzazione del sito, svoltiamo a destra e proseguiamo quasi in cima al Bricco Peagna dove troveremo un piccolo pianoro artificiale. Qui ci ritroviamo davanti all’ingresso dell’Arma delle Fate, che è costituito da una grande e luminosa apertura protetta da un muretto a secco e da un’inferriata metallica. L’antro si sviluppa, nella parte interna, su tre saloni ampi collegati tra loro da stretti cunicoli. Tra i primi esploratori della grotta si annoverano il Capitano Enrico D’Albertis e il geologo genovese Arturo Issel, entrambi pionieri delle ricerche nel Finalese, accompagnati da Padre Gian Battista Amerano, professore al Liceo Ghiglieri di Finale Ligure e noto ricercatore.
La caverna delle Fate fu un’importante giacimento paleontologico dove vennero ritrovati resti dell’Orso Speleo e i primi segni di devozione alla Grande Dea. Per mezzo del sentiero che continua in discesa ci congiungiamo al ben più conosciuto anello dei ponti medievali, attraversando prima quello denominato “delle Fate” per proseguire alla nostra destra e raggiungere gli altri due: “Ponte Sordo” prima e “Ponte Muto” poi (approfondimento su “Val Ponci e Arma delle Manie” su duezainieuncamallo.com).
Il sentiero, a questo punto, volge a nord est, andando ad intersecarsi con la chiusura dell’anello che termina ben presto alla Grotta dei Ciliegi e alla famosissima Arma delle Manie.
Attraversare questi luoghi così pregni di spiritualità senza conoscere i particolari che storicamente li hanno caratterizzati è davvero un peccato, così ci siamo rivolti ad un’esperta che da anni studia e lavora presso il Museo Archeologico del Finale: Manuela Saccone.
Come responsabile delle attività didattiche del MUDIF, Manuela si occupa di studiare il culto della Dea Madre e di identificarne il ruolo che assunse in Liguria dall’epoca preistorica all’era moderna.«Dal momento in cui l'essere umano ha iniziato a sviluppare un pensiero astratto, ha scoperto di avere un'anima e immaginando un mondo spirituale, la sua pulsione creativa lo ha trasformato in un linguaggio simbolico.
Dal quel momento la "Grande Dea" ha abitato l'immaginario collettivo dei nostri antenati, radicandosi in un culto rivolto ad una divinità femminile.
La figura femminile ha sempre portato un carico non solo iconografico, ma soprattutto emozionale e a partire da 40.000 anni fa, è stata protagonista di una narrazione che ha posto la donna al centro della storia dell'umanità, una storia che in seguito, la cultura patriarcale ha declinato al maschile. L'adorazione di idoli in forma femminile nasce nel Paleolitico ed è dovuta certamente all'osservazione della donna che ha la capacità di rimanere gravida e di generare sia il maschile che il femminile. In un momento in cui l'uomo non ha ancora chiaro il proprio ruolo all'interno del meccanismo della procreazione, la donna diviene simbolo di un potere sovrannaturale, che sta alla base delle prime esperienze religiose e che diventa la metafora della natura stessa che è in grado di rinnovarsi in un eterno ciclo di morte e rinascita. Non abbiamo sufficiente documentazione per capire quali fossero i riti relativi al culto della "Grande Dea", ma le testimonianze archeologiche evidenziano un atteggiamento devozionale nei confronti di piccoli idoli di forma femminile scolpiti su pietra, osso e avorio di mammut e in seguito alla scoperta della ceramica, modellate in argilla e terracotta durante il Neolitico. In Liguria, le statuine più antiche chiamate anche "Veneri", sono state ritrovate nelle grotte dei Balzi Rossi a Ventimiglia e datate a circa 20_25.000 anni fa. Si tratta di 15 statuine per la maggior parte in steatite, alte pochi centimetri, con la testa priva di lineamenti, con ventre e glutei in evidenza e gambe e braccia ridotte all'essenziale. Purtroppo neppure una di queste statuine si trova in Italia, esse sono esposte nel Museo di S.t Germain an Laye nei pressi di Parigi e altre sono confluite in collezioni private. Quando furono rinvenute, la notiziafece scalpore, ma molti circoli accademici d'Europa pensarono che si trattasse di falsi, poiché nulla del genere era mai stato ritrovato prima e nulla si sapeva dell'arte paleolitica, così lo scetticismo sull'autenticità delle statuette, unito alla mancanza di una relazione precisa riguardo allo scavo fece sì che le "Veneri" fossero vendute e poi dimenticate. Tornarono all'attenzione degli studiosi soltanto più tardi, quando altre statuine del genere vennero riportate alla luce negli scavi archeologici di tutta Europa. Altre statuine della "Dea" provengono dai siti finalesi della Caverna delle Arene Candide e dalla Grotta Pollera, si tratta di manufatti in terracotta risalenti alla cultura dei Vasi a Bocca Quadrata e databili intorno ai 7.000 anni fa. Alcune mantengono l'abbondanza delle forme, altre invece sono figure femminili stilizzate che presentano una lunga capigliatura sulle spalle, i lineamenti del volto appena accennati da tratti schematici, le braccia in conserte sotto al seno. Questi reperti sono oggi esposti presso il Museo Archeologico del Finale, che conserva l'intero patrimonio preistorico del territorio. Col passare del tempo i caratteri distintivi dell'antica Dea, confluirono nelle varie dee storiche, la cui considerazione era dovuta alla loro funzionalità verso il maschile e venerate in quanto mogli degli dei; la società patriarcale aveva ormai soppiantato quella matrilineare e la forza della "Grande Dea", rimase confinata all'ambito domestico femminile.
A poco a poco di lei non si parlerà più e i riti celebrati in suo onore entreranno nelle pieghe della liturgia cristiana creando una vera e propria devozione delle Madonne nere e del culto mariano, dove la madre del Cristo presiede i santuari, che molto spesso sono costruiti su fonti miracolose che ci ricordano il culto delle acque, metafora del grembo materno. Le forze ctonie della "Grande Madre" verranno richiamate ogni volta che i sacerdoti avranno benedetto i campi e i raccolti.
Ma in qualche modo essa ha continuato a parlarci e a sussurrarci all'orecchio, e chi accoglie in sé il grande potere creativo e trasformativo della natura, ha certamente compreso il suo messaggio».